Cosa possiamo acquistare sul Borgo Casamale?
Alcuni dei prodotti tipici che possiamo trovare o acquistare sono tra i seguenti:
- Il nettare del vesuvio.
- La catalanesca di mamma Schiavona.
- I pomodorini del piennolo.
- Baccala.
- Le “cresommole”.
- Lacryma Cristi.
Sono veramente prodotti tipici del casamale?
Si, sono prodotti tipici del Borgo Casamale ma più che altro sono prodotti che fanno parte di Somma Vesuviana.
Uno dei prodotti tipici del Borgo Casamale: LA CATALANESCA DI MAMMA SCHIAVONA
La Catalanesca del Vesuvio, dal grappolo rado, gli acini rotondeggianti e la buccia dorata, spessa e croccante, fu portata a Napoli dalla Catalogna da Alfonso I di Aragona nel XV secolo ed impiantata alle pendici del Monte Somma, tra Somma Vesuviana e Terzigno, dove attecchì perfettamente.
Per molti anni è stata catalogata dai registri ampelografici come uva da tavola e pertanto non era consentito vinificarla e commercializzarla come uva da vino, nonostante da sempre i contadini locali, consci delle sue qualità, avessero in uso di trasformarla in vino. Ne sono testimonianza gli enormi torchi vinari risalenti al ‘600, facilmente reperibili negli antichi cellai delle masserie della zona, ricavati da tronchi di mastodontici alberi di quercia, da cui assunsero la denominazione dialettale di “cercole”.
L’iter per far assumere alla Catalanesca il rango di uva da vino è iniziato negli anni ’90 con gli studi condotti da Luigi Moio e Michele Manzo, che la dichiararono “un’uva con tutte le attitudini ad essere vinificata”, ma solo nel 2006 è stata ufficialmente inserita nell’elenco delle uve da vino e dal 2011 può essere messa in commercio con la tanto attesa ed agognata denominazione “Catalanesca del Monte Somma IGT”. È un’uva tardiva, che si raccoglie tra Ottobre e Novembre: era consuetudine antica quella di portare i grappoli in pianta fino al periodo natalizio, eliminando man mano gli acini guasti. Il disciplinare prevede che il vino sia prodotto nei comuni di San Sebastiano al Vesuvio, Massa di Somma, Cercola, Pollena Trocchia, Sant’Anastasia, Somma Vesuviana, Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano e Terzigno. I suoli che caratterizzano il territorio del Monte Somma – parte residuale dell’originario “Somma Vesuvio”, collassato a seguito di millenni di eruzioni, culminate in quella del 79 d.C. – sono estremamente ricchi di minerali, caratteristica che dona all’uva una connotazione del tutto particolare. Nella versione bianco secco, dà vita ad un vino di un bel giallo paglierino con i riflessi dorati tipici del vitigno, dai profumi intensi di albicocca e ginestra, che lasciano presto spazio ad una mineralità preponderante, sia al naso che in bocca. Necessita del giusto tempo in bottiglia per farsi apprezzare al meglio. Perfetto l’abbinamento con la mozzarella e, perché no, con una bella pizza bianca.
Il miele campano: IL NETTARE DEL VESUVIO
La Storia.
Tra i boschi del Somma Vesuvio viene prodotto uno dei migliori mieli d’Italia Il miele è un alimento dalle origini remote, noto già agli antichi egizi per le sue proprietà antisettiche e perché ritenuto simbolo di purezza e genuinità, grazie al suo aspetto limpido e trasparente.
colore e il profumo del miele dipendono dalla pianta frequentata dalle api, e quindi, dal tipo di polline utilizzato per produrlo; la ricca e variegata vegetazione vesuviana ha fatto sì che nei secoli fiorisse una gran produzione di diversi tipi di miele, che, oltre a essere consumato fresco, è anche l’ingrediente principale di numerosi piatti della tradizione dolciaria, si pensi solamente al torrone o agli struffoli, prodotti con il miele di acacia. Quest’ultimo è una specialità di tutta la Regione.
Area di produzione.
Il territorio interessato alla produzione è compreso nei seguenti comuni: Somma Vesuviana, Sant’Anastasia, San Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio.
Descrizione.
Ricavato dal nettare dell’acacia: ha un colore molto chiaro e un profumo leggero ma caratteristico; il suo sapore ricorda il profumo vanigliato dei fiori. Il miele di acacia viene raccolto manualmente tra aprile e ottobre e viene lasciato a maturare per 3-4 settimane; è poi confezionato in contenitori di vetro e posto in commercio non oltre l’autunno dell’anno successivo a quello di raccolta. Anche il miele di castagno è antichissimo e occupa un posto importante nella tradizione alimentare campana, poiché costituisce, spesso accompagnato dalla frutta essiccata, un ingrediente fondamentale nell’artigianato dolciario tradizionale. Derivato dal nettare di fiori di castagno, questo miele ha un colore che varia dall’ambrato al marrone scuro. Ha un odore molto tipico, forte e penetrante e un sapore pungente lievemente amaro. Anche il miele di castagno non cristallizza e viene raccolto tra aprile e ottobre per poi essere confezionato in contenitori di vetro e posto in commercio entro l’autunno dell’anno successivo a quello di raccolta. Degno di rilievo è anche quello di melata di bosco, in questo caso il miele deriva da melate prodotte da molte specie vegetali diverse parassitizzate da un unico insetto. E’ di colore ambrato scuro, talvolta quasi pece e viene presentato quasi ovunque allo stato liquido.
Il profumo è intenso, vegetale, fruttato, ha un sapore dolce ma non troppo, con retrogusto salino appena percettibile. L’aroma, mediamente intenso, di malto d’orzo, caramello, è poco persistente.
Un prodotto America-Napoletano: I POMODORINI DEL PiENNOLO.
Arrivato, com’è noto, dalla lontana America, il pomodoro ha trovato nel Napoletano il suo habitat ideale, prosperando ed evolvendosi verso specie domestiche sempre più pregiate. Insomma, la sua coltivazione è divenuta una vera e propria arte e la tradizionalità di questa produzione sin dal XVIII secolo è documentata da numerose fonti bibliografìche nonché dall’abitudine di riprodurre i pomodorini fra gli ortaggi del presepe. Ai Napoletani, per giunta, va riconosciuto il merito di aver introdotto Fuso del pomodoro nella cucina italiana e, tramite l’industria conserviera, di averlo diffuso un po’ ovunque. delle varietà locali più pregiata e caratteristica la troviamo nella zona del Parco Nazionale del Vesuvio: si tratta dei rinomati Pomodorini Vesuviani da serbo localmente detti “del Piennolo” (ovvero “del Pendolo”). Nel comprensorio dei comuni alle pendici del Vesuvio, coltivato su piccoli appezzamenti tra i 150 e i 450 metri sul livello del mare, in assenza di irrigazione, il Pomodorino Vesuviano trae i massimi benefici dal terreno vulcanico e da un sole quanto mai generoso. Anche il suo colore “ardente” è un regalo del vulcano, tanto che secondo gli anziani le radici dei pomodorini si nutrono della lava stessa del Vesuvio. Il resto lo fanno le premurose cure di agricoltori attenti a mantenere intatte le tecniche tradizionali che prevedono, tra l’altro, l’ausilio di sostegni con paletti di legno e filo di ferro, in modo da evitare che le bacche tocchino terra e per far si che i frutti, ricevendo i raggi solari uniformemente, possano colorarsi in maniera adeguata.
I frutti, del peso poco superiore ai 20 grammi, sono di forma tondeggiante leggermente pruniforme, con un peculiare piccolo pizzo all’estremità inferiore e delle depressioni sull’altra estremità. La buccia è spessa, la polpa soda e compatta dal sapore dolce-acidulo delizioso ed inconfondibile dovuto alla particolare concentrazione di zuccheri e sali minerali.conservazione tipica di questi pomodorini è in “piennoli”: i grappoli interi, detti “schiocche”, raccolti tra luglio e agosto prima della loro completa maturazione, vengono sistemati su un filo di canapa, legato a cerchio, arrivando a comporre un unico grande grappolo di diversi chilogrammi che verrà mantenuto sospeso da terra in luoghi ben asciutti e ventilati. Sistema questo, che, favorendo una lenta maturazione, consente di avere “oro rosso fresco” fino alla primavera seguente all’anno della coltivazione. La lunga naturale conservazione è dovuta al fatto che le piante sono coltivate “in asciutta” e alla buccia piuttosto spessa che limita la disidratazione del frutto. Dal piennolo è possibile “attingere” cogliendo i singoli pomodorini che diventano così un ingrediente essenziale di tanti piatti tipici napoletani, regalano un tocco inconfondibile alla pizza, alle bruschetto, agli spaghetti, alle salse, agli intingoli a base di pesce e a mille altre ricette. Le famiglie vesuviane, inoltre, erano solite preparare le classiche “bottiglie di pomodoro” dopo averlo passato al setaccio o introdotto nei contenitori a filetti (“pacchetelle”). Sia il metodo di coltivazione tradizionale in appezzamenti spesso impervi sia la
La tradizione incontra i freddi mari del Nord: STOCK O BACCALA.
Il baccalà è pesce! è merluzzo. Proviene dai mari del nord. Dalla Norvegia. Confesso che facevo fatica a immaginare un TIR proveniente dal lontano arcipelago delle Lofoten, oltre il Circolo Polare Artico, che porta baccalà e stoccafisso in una cittadina alle pendici del Vesuvio, dove schiere di “ammollitori” si sarebbero adoperati per tirar fuori mussillo di baccalà e coreniello di stoccafisso (da noi contratto in stocco).
Innanzitutto chiariamo la differenza tra baccalà e stoccafisso: entrambi sono la parte centrale del merluzzo, il primo è essiccato e conservato sotto sale, il secondo, invece, non è salato ma essiccato all’aria. Ora però, a beneficio di chi risiede al di sopra del Garigliano, spieghiamo che cos’è il mussillo e cos’è il coreniello.
Il mussillo è la parte centrale del baccalà, quindi la migliore. È polposo e morbido, quasi come le labbra di una giovane donna, e per questo mussillo, piccolo muso. Il coreniello, invece, è il filetto di stoccafisso, di colore ambrato e meno polputo, che essendo ricavato dalla parte centrale del merluzzo fa discendere il suo nome da “cuore”, quindi, coreniello. Il primo, dopo averlo passato nella farina, si presta bene a essere fritto in abbondante olio e accompagnato da una fetta di polenta (altro riferimento extra-pelagus), mentre il secondo è preferibile lessarlo e consumarlo in bianco condito con dell’ottimo olio extravergine, limone, aglio, sale e prezzemolo.
La frutta paesana!!!: LE “CRESOMMOLE”(albicocche).
Le associazioni di Somma Vesuviana, che hanno curato l’evento “Crisommole”, poiché sono fatte di persone che amano la loro terra e ne conoscono la storia – conoscenza della mente e del cuore, e non solo “’na vranca ‘e chiacchiere” – queste associazioni, dicevo, hanno disegnato un percorso di “trionfi” della “crisommola” attraverso il Casamale, nel fascino dei cortili, negli angoli su cui si apre la “sorpresa” incantevole di vicoli, di muri, di archi di pietra vesuviana che hanno la sostanza e la trama dei ricordi, delle memorie, delle voci di oggi che prolungano l’eco delle voci di ieri. Gli organizzatori dicono di aver usato “il termine dialettale crisommole” perché nella nobile sua origine esso esprime compiutamente il valore di un frutto ineguagliabile, e poi per la naturale immediatezza con cui “‘a crisommola” diventa simbolo di una cultura e di una identità. Sabato sera ho notato come, confrontandosi con i grigi riflessi delle pietre del Casamale e con la trasparenza delle ombre, il colore delle “crisommole” dispiegasse e svelasse tutto il mistero dei suoi toni, il giallo di cadmio arancio, il giallo di Napoli rossastro, il rosso permanente arancio: proprio quei toni che Gigi Chessa, Fortuny, Hodler e Modigliani mescolarono sulla tavolozza per ottenere il colore di carne da usare quando dipingevano il corpo luminoso delle donne.
Quel colore qualche studioso lo chiama “albicocca”: in verità ha la delicatezza della “crisommola”, una delicatezza vitale, un colore che si fa sapore, lo vedi e lo gusti, ne percepisci la suggestione, ne senti la voce che ti invita a guardare lo spazio che nei cortili è occupato dalle pietre e dai segni della civiltà contadina, il pozzo, la scala che si torce, la trama dal piperno corroso ma ancora tenace, i balconi, gli angoli e le ombre e i sussurri della casa vicina, e il “respiro” di un vicolo la cui perfezione pare disegnata da Achille Vianelli, e in cui spero di poter presentare il mio libro sulla storia del baccalà e “della crisommola” e sul lavoro dei Sommesi che costruirono queste due leggende. Nessun segno di questo “luogo”, è conclusivo, la sequenza non si chiude, dietro ogni immagine ti aspetti che si manifesti un’altra immagine, e che un ricordo prorompendo inatteso alla superficie della memoria ti costringa a scrutare, a cercare. E le mani di una simpaticissima signora non più giovane mi mostrano la bocca di un forno, e mi richiamano alla mente il loquace silenzio dello sguardo con cui mio padre, sommese, rimpiangeva il pane del Casamale, e lo stocco lavorato da un’anziana “baccalajola” del Casamale. In questo sistema aperto acquistano un senso, paradossalmente, anche le strutture recenti, piani interi, balconi, finestre, portoni, che non rispettano la storia e lo spirito del “luogo”: ma il “luogo” alla fine assorbe tutto nella sua assoluta bellezza, e tutto “purga” e giustifica.
I “trionfi” dell’albicocca, disposti con arte all’interno del mitico spazio, trasformano il borgo in un sistema aperto, in un libro in cui l’ultima pagina si chiude con un avvertimento “..continua”. Continua la battaglia delle associazioni sommesi e dei Vesuviani che amano la loro terra per tutelare il valore della “crisommola” “a monte e a valle della filiera, esaltando il ruolo dell’agricoltura locale e aumentando il potere contrattuale dei produttori primari e dei consumatori finali.”. Continua a svolgersi nello spazio del “sentire”, anche quando vado via dal Casamale, il ritmo della musica e del canto popolare intrecciato dalla voce di Arianna Gera e dagli strumenti di Enzo Di Marzo, Nino Conte, Titty Esposito: una voce e una musica che non sono solo ornamento, non fanno parte del “teatro”, ma vengono su dall’anima del “luogo”.
Continua a incantarmi l’immagine di Alfredo di Matteo che intreccia cesti e “féscine” con strisce di castagno e con una tecnica che i vignaioli e i “melajoli” sommesi trasformarono in arte. Ai tempi di G.B. Basile le “fescine” erano usate solo da chi coglieva fichi, e perciò, dice il genio nella lettera IV, “non se po’ avere la votte chiena e la mogliere ‘mbriaca, vennegnare e pigliare le fescene, non se po’ bevere e siscare”. E Basile stabilisce che un uomo tozzo e sgraziato è simile allo “streppone della fescena”, al gambo su cui poggia il cesto. Quando i vignaioli vesuviani incominceranno a usare l’attrezzo, la locuzione “ fare ‘a primma fescena pampanosa” significherà “iniziare male un’attività”, “partire con il piede sbagliato”, riempire il primo cesto non con i grappoli d’uva, ma con i pampini. E sarebbe bello leggere e commentare una pagina di Basile nella magia del Casamale: le parole della sua lingua straordinaria esprimerebbero tutto il loro sapore, un sapore intenso e vibrante, come quello dei dolci all’albicocca creati dai pasticcieri di “Alaia”, del bar “Nueva”, “food e Rir”, di “Masulli”.
Sabato sera il Casamale con i “trionfi” di “crisommole” e con i prodigi dell’arte pasticciera sommese era come la taverna del “Cerriglio” descritta da Basile: un “luogo” in cui “ s’ammasona la pace, pampaneia la quiete, dove gaude lo core, se conforta la mente, se dà sfratto a l’affanne..”.
Il vino pregiato del Borgo: LACRYMA CHRISTI.
I vini del Vesuvio erano già famosi ai tempi dei romani per corpo e bontà: “Haec iuga quam Nysae colles plus Bacchus amavit – Bacco amò queste colline più delle native colline di Nisa” (Marziale).
Esistono vari miti e leggende sul nome del vino: Dio riconoscendo nel Golfo di Napoli un lembo di cielo strappato da Lucifero durante la caduta verso gl’inferi, pianse e laddove caddero le lacrime divine sorse la vite del Lacrima Christi[senza fonte].
Un’altra versione narra invece di Cristo in visita ad un eremita redento che prima del commiato gli trasforma la sua bevanda poco potabile in vino eccellente. Versioni cristiane ereditate dalla mitologia pagana ben radicata sin dai primi insediamenti umani come dimostrano l’affresco di Bacco sul Vesuvio conservato nella Casa del Centenario a Pompei e le sue infinite presenze nei resti romani scampati all’eruzione del 79 d.C., la più antica di cui si abbia testimonianza scritta.
Sulla leggenda ritornò Curzio Malaparte che ne “La pelle”, invita a bere “questo sacro, antico vino”.
Il Lacryma Christi veniva prodotto negli antichi tempi da certi monaci, il cui convento sorgeva sulle pendici del Vesuvio. Sembra che più tardi i Padri Gesuiti, padroni di vaste terre in quelle località, fossero quasi esclusivi produttori e detentori di questo prezioso vino.
Per quanto siano radicate le tradizioni del Lacryma Christi, l’istituzione della DOC è piuttosto recente e risale al 1983.
Il Lacryma Christi rientra nella Denominazione di Origine Controllata (DOC) Vesuvio (D.P.R. 13.01.1983 – D.M. 31.11.1991) con una produzione annua di 12.986 Hl.
L’appellativo Lacryma Christi è la sottodenominazione di cui il vino può fregiarsi quando la resa è contenuta al 65% dell’uva e quando il titolo alcolometrico raggiunge almeno il 12%[1]. Oltre il 90% del prodotto in circolazione rientra nella sottodenominazione, mentre il restante 10%, circa 2000 ettolitri di vino, viene imbottigliato col solo nome Vesuvio.
Le uve sono coltivate solo in 15 comuni del napoletano, ad alta vocazione vitivinicola e localizzati su tutta la fascia pedemontana del Vesuvio dove i vigneti ospitano varietà autoctone, da sempre coltivate in questa zona