Archetipi

 SUGLI ARTETIPI  DELLA RELIGIOSITÀ

A SOMMA E NEL TERRITORIO VESUVIANO—–

La storia del territorio vesuviano si intreccia con le preesistenti fonte archeologiche: vale a dire che il mito sta alle radici della nostra identità. Nel senso che le fonti della civiltà di questo particolare territorio ad est di Napoli, sono anche da ricercare nell’arte, nei costumi e a dir poco nell’archeologia. Cosicché, lo studio delle antichità rispetto al nostro territorio, necessita sempre apertura a nuove forme di lettura e beninteso come partecipazione alle conoscenze di un ben definito archetipo. E nondimeno, come si sa in psicoanalisi questo concetto è presente nelle teorie di C. G. Jung; per il quale: nell’inconscio sono presenti non soltanto le latenze di rappresentazioni appartenenti originariamente alla coscienza del singolo individuo, ma anche altre, che hanno un carattere universalmente umano, e si attuano, oltre che nei sogni, nelle visioni e nei deliri dei singoli individui, anche nel simbolismo dei materiali mitologici e dei sistemi religiosi. In nome di tali principi, che abbiamo esigenza di riportare il seguente brano, integralmente ripreso dall’interessante volume “Napoli antica”, edito a Napoli nel 1885 e recentemente ripubblicato a cura della collana “Libri ritrovati”: Oltre agli Dei da Stazio mentovati, Napoli adorò Bacco col nome di Ebone e fu­rono , inoltre, venerati Nettuno, Diana, Vesta, Orione e parecchie divinità del credulo Egitto Adorati ancora Giove Fiazzo, nome oscurissimo anche dopo le Magda del Mazzocchi che lo interpretò per Giove Tonante. mancarono voti al vulcano Vesuvio, come dal seguente marmo del Museo archeologico di Capua: IOVI VESVVIO SAC. 
Pertanto, un altro marmo Capuano ci documenta di un altro elemento dell’ecosistema vesuviano, il fiume Sebeto, che a sua volta, come si evince, ebbe un polo di culto, ovvero una sua propria “edicola”: MAEVIVS EVTVCHIVS AEDICVLAM RESTITVIT SEBETHO. E senza dubbio, per protezione da eventuale vulca­nica catastrofe, il massiccio Somma-Vesuvio fu ritenuto, addirittura, una divinità ed avente culto con iltitolo di Giove Summano: IOVI. O. M. SUMMANO EXVPERANTISSIMO. Ciò nondimeno, resta da rilevare un importante aspetto del contenuto di questo ultimo testo lapidario: il termine Summano, infatti, non designa soltanto il titolo di Giove, ma piuttosto il nome di un’altra esi­ stenza divina. Per meglio dire, il sostantivo Summano indica una divinità minore del cosiddetto Olimpo sacro di Roma antica. Ossia, nel calendario pagano, c’era indicato un giorno sacro dedicato a questo nume e fin tanto che, le uniche notizie che abbiamo a ri­ guardo il culto religioso riservato al dio Summano, consisterebbero nelle seguenti avite usanze: la specifica festa sacra cadeva il 25 giugno, la data ricorrente della dedizione tutta sua di un tempio ed appositamente, in questo giorno, si sacrificava un montone nero e si consumavano certe focacce di farina a forme di ruota, detta “summanalid’.
Dell’autenticità del dio Summano, si rimanda al noto testo di Plinio (Nat. Hist. II 138) in cui si af­ferma che questa divinità proviene dall’Etruria e per espiazione gli venne dedicato un tempio a Roma. E tutto questo secondo un’ antica leggenda, dal seguente tenore: tempo primo che gli fosse stato dedicato un tempio si era manifestato un eccezionale prodigio, che appunto riguardava la statua di marmo, raffigurante il dio Summano. E un primo momento, questo simulacro, era stato collocato, in qualità di acroterio, ai vertici del frontone del tempio di Giove Capitolino ed addirittura come figurazione apotropaica. Ma inaspettatamente, accadde che questa statua venne colpita da un fulmine, provocandone lo stacco della testa, fin a scaraventarla nel fiume Tevere. E tanto apparve insolito questo fatto che si finge a credere come, il nume stesso, in tal modo avesse manifestato il desiderio di un edificio sacro tutto suo, fintato ché che gli venne dedicato un tempi; co­struito nei pressi del Circo Massimo a Roma, nel 278 SUMMANA.
C, per installarvi specificamente il prodigioso simulacro di questo nume.Dacché, Livio stesso arrivò a considerare Summano un epiteto del padre degli dei, che fino a quel momento era ritenuto una divinità a stante. Ma Plinio, a sua volta, lo considera in compagnia a Giove, in quanto sono entrambe due divinità preposte ai fulmini: rispetti­vamente a quelli diurni è preposto Giove quelli notturni Summano, fin ad assumere, entrambi, la connotazione di specifica divinità infernale. E dunque, occorre osservare che, secondo la mitologia greca e romana, Zeus era soprattutto il dio supremo. Incarnava l’ordine cosmico, di cui era garante ed aveva, in primo luogo, il compito di difendere l’equilibrio della natura. Senza dubbio, fin qui la chiave interpretativa valida del contenuto di questo studio sta nel chiarire l’etimo­logia originaria del nome Summano, in effetti, sembra che indica indirettamente le caratteristiche assolute di Giove: penes Iovem sunt summa. ossia volto a presiedere grandi cose. Ed inoltre, questo concetto, veniva con­fermato dalla tradizione, che ricordava la statua del dio Summano, posta, fin dello origine collocata alla sommi­ del tempio di Giove. E dunque resta da considerare anche un altro punto di etimologia possibile: sub-mane= prima dell’alba del giorno. Accentuandone, cosi, la denotazione di signore dei fulmini notturni.
Inoltre, conta ancor di più rilevare u n altro mistero riguardante l’identità del dio Summano; consistente nel fatto che, l’immagine di questo nume è pressoché sconosciuta, in quanto non si hanno monumenti figurati che possano consentire di determinarne una specifica iconografiaMa, del resto, una considerazione occorre qui ri­portare, in quanto, almeno, ci è stato possibile ricavare un’immagine di questa divinità, risalendo ad grafico riportato su Google, Italia. Un’effigie questa, probabilmente, ricavata da una dubbia identificazione del dio Summano, scorta in un rilievo del Museo Mussolini a Roma, poi diventato Museo Nuovo, dove sono state trasferite diverse opere di scultura romana, fin allora conservate nell’Antiqua­rium al Celio. Ma comunque, questa figura ci restituisce la pro­babile effigie del dio Summano, corrispondente ad un’immagine maschile in vesta eroica ed avente come at­tributi distintivi i seguenti puntuali simboli: nella mano sinistra le saette e nella destra la pertica avente in cima, come trofeo, l’effigie dell’aquila. A questo punto, molto altro si potrebbe argomentare su questa immagine sacra pagana, ma forse basta riflettere sull’opportunità di considerare il divenite di un vero e proprio, prototipo, che in qualche modo andrebbe riscontrato nel divenire nelle effigie del santi protettore, in età cristiana. Eppure, a monte di questa ipotesi, gli attributi spe­cifici di Summano sono tali che, inconfondibilmente, rimandano a Zeus, nel modo tale da assimilare il suddetto grafico alla rappresentazione di Giove Capitolino in un affresco della Casa dei Vetti di Pompei. Poi a questo punto, vorrei e dovrei aggiungere un’altra serie di annotazioni che riguardano il tributo di venerazione espresso rispetto alle divinità “Jovi. O. M. Summano” nel territorio vesuviano. E qui cade bene il richiamo al fatto che, in età antica, il massiccio mon­tuoso Somma-Vesuvio veniva, almeno dalla comunità campane, paragonato all’Olimpo e per questo non mancarono anche voti al Vesuvio; come ci vengono testimoniati dalle iscrizioni dei marmi Capuani. Invero, per renderci conto del carattere di cultura romana denotante il vasto territorio vesuviano, occorre riflettere su precise considerazioni storiche, riguardante I’agercampanus. L’affermazione politico-culturale di Roma in Campania e persino, il diffondersi nel terri­torio di tante forme di culto religioso romano, è stato possibile anche allo stato della viabilità in Campania all’epoca. E in proposito, alcune attente notizie, pos­siamo desumerle da un succinto studio storico di Gio­vanni Pugliese Caratelli: “La consolare Campana è stata la prima via romana che unisce la costa al retroterra, ancora fuori dell’area napoletana; la viabilità in area era legata alla necessità della colonia marittima di Puteali (Pozzuoli) di commerciare i prodotti agricoli di Capua e poi occorre prendere in considerazione un’altra via che va da Capua a Neapolis dalla zona di Acerra, dove non si trovavano altre strade di comunicazione con Neapolis, in quanto l’antica Capua ha gravitato su Nola e verso la piana del Sarno e fino al porto di Pompei” 
Ma, non per nulla, il nodo centrale del nostro articolo si fonda su più attenti criteri d’analisi di tipo antropologico ed occorre convenire, sul fatto che le radici della religiosità del territorio vesuviano, sono da ricercare nell’età romana.Tutto sommato, proprio il ruolo di questi culti antichi è posto sicuramente nella religiosità in senso lato. Laddove, questi valori di fede, oltre ad essere un condensato di cultura e di spiritualità in senso generico, sono espressione volte a lenire l’angoscia dei bisogni primari.
Effettivamente occorre osservare che, a partire dall’età antica, certi momenti di religiosità collettiva, in ragiona di difesa dalle calamità naturali, avranno avuto, come nume tutelare, pur tuttavia, il dio Summano. Eppure, questa forma di culto pagano, finl ad essere associato ad una divinità, pur sempre alquanto diffusa in Campania: il padre degli dei con l’epiteto di “Giove Summano”. E qui torna utile ricordare che, a riguar­do l’attaccamento collettivo a queste due specifiche divinità, resta da tener conto le esigenze psicologiche e di archetipi vari. Fino al punto che, l’allusione sim­bolica all’incombente tormento del vulcano Vesuvio, è consistita nel designare il fuoco che vi è celato, un pericolo, come sempre, imprevedibilmente e insidioso. Per meglio dire, dette forme di culto hanno fatto storiche alcuni elementi pagani siano morti e cresciuti in un’altra dimensione cristiana purificata.
E a proposito, Raffaele D’Avino, in una sua colorita ricerca dal titolo: “Protezione magica a Somma, Virgilio mago e stregone’: rende il sacro del tutto accessibile e a tal fine, torna utile riportare il seguente giusto brano: “Nel settecentesco volume, divenuto rarissimo, del Signor D. Fabrizio Capitello, Raccolta di Reali Registri, Poesie diverse et Discorsi storici dell’Antichissima Reale e Fedelissima Città di Somma, edito a Venezia nel 1705, leggiamo alla VII pagina d’introduzione: comanco Virgilio vi (a Somma) erigesse una statua di bronzo di smisurata grandezza, propriamente vicina a detta città, per antemurale al Vesuvio” .E cosi stando le cose, per l’estensione della ricerca, c’è ancora da rilevare, che il complesso rapporto con la preoccupante presenza del Vesuvio, conseguentemente, avrà dato origine a un sistema di miti e leggende che, soprattutto, troviamo alle radici della nostra identità di cultura cristiana in una più vasta area vesuviana. Fin tanto che, lo snodarsi di siffatte congiunture, tra mondo antico e processo di cristianizzazione, l’antica fede agli dei pagani, viene, via via, rimpiazzata da forme di devozione a peculiari santi patroni cristiani e finché si finisce a far ricorso ad un folto variegato numero di numi tutelari.Ma intanto in primo luogo, conviene valutare l’aspetto iconografico a riguardo le effigie dei santi. Ovvero, in linea con le esigenze della Controriforma, è stato utilizzo il più possibile il prototipo di eroe vin­citore del male e di ogni calamità naturale. E il tutto come processo storico culturale che, non può essere disgiunto dalla più atavica cultura pagana, cosi come viene letto da un attento antropologo.Momenti di religiosità popolare questi, che an­drebberono direttamente studiati rispetto allo specifico dei correlativi centri abitati del territorio a nord-est del Vesuvio: da quelli più contigui alla Capitale, Barra, Ponticelli, Cercola e fin a quelli propriamente adagiati al monte Somma: Pollena Trocchia, Sant’Anastasia, Somma ed Ottaviano e sul versante meridionale San Giorgio a Cremano.Invece,in primo luogo rispetto alieconomia di questo saggio risulta, particolarmente, opportuno segnalare lo spirito vernacolare sotteso al culto di san Gennaro, manifestato del resto nell’intera area vesuviana, come pressante ricerca di aiuto divino rispetto l’incombente sterminator Vesevo’ Tanto che, in questa prospettiva appare specificamente emblematica la notissima, monu­mentale lapide di Portici: Posteri posteri, vestra res agitur dies facem praefert diei nudius perendino advortite...
 
E più precisamente in tale stato d’inquietudine collettiva, a riguardo la vasta area vesuviana, l’agiografia del nume tutelare (san Gennaro) diventa contenuto per molte opere d’arte sacra: esemplare, in tal senso, è la de­ corazione pittorica, eseguita magistralmente dal pittore Angelo Mozzillo, per la cappella dedicata, appunto a questo santo, nella chiesa Collegiata di Somma.
Infatti, il contenuto sacro di questo ciclo d’affreschi definisce l’ideologia fondamentale della religiosità testé descritta, fin tanto che, il classico modello antico di eroe, viene efficacemente posto in primo piano in uno dei più belli riquadri di questa spedita decorazione pit­torica:  Orbene, proprio in merito a questo programmo d’indagine, con criterio di ampia prospettiva territoriale passiamo dettagliatamente al discorso in merito al culto dibutato ad altri santi patroni ed in “primis”, quello, del tutto particolare, San Michele Arcangelo patrono di Ottaviano.
Le origini storiche, di questa particolare forma di religiosità popolare, sono raccolte in numerose leggende autoctone. E qui cade bene il riporto integrale di quella tra le più emblematiche, così com’è stata pubblicata, cir­ca un secolo fa, da un periodico locale (“La ginestrà’, del 7 maggio 1911): Un anno di forte carestia il popolo di Ottaviano languiva difame, tutti si rivolgevano a san Michela, affinché implorasse a Dio la cessazione di quello stato miserevole e triste. Non andò a lungo, però, che un giorno, un giovane biondo e bello si presentò a un grande commerciante delle Puglie ed acquistò da lui moltissimi sacchi di grano, che fece spedire ad Ottaviano. Pagò il conto con un anello bellissimo e dgran valore, che si trasse dal dito: Figurarsi lo stupore degli Ottavianesi all’arrivo di quel grano che rappresentava la loro salvezza. Mossisi ad indagare che mai avesse potuto essere il benefattore, non vi riuscirono. Quando uno degli accompagnatori del carico di una serie di carri tirati ognuno da quattro buoi, visitando per curiosità il tempio maggiore di quel paese, Ottaviano, riconobbe nella bella statua di un san Michele, che era esposta sul trono, le precise fattezze degiovane che si era recato nel loro negozio.Quanto maggiore allora fa la commozione degli Otta­vianesi nel riscontrare che al dito dell’Arcangelo mancava l’anello che aveva da più di un secolo come ex voto. Così riconobbero allora tutti che il loro protettore li aveva salvati dalla triste miseria 
Infatti, nella vivace espressione di questo raccon­to possiamo cogliere come l’immaginario religioso popolare abbia elaborato un culto per l’Arcangelo Michele, un mito fin dai tempi più antichi come tale­ se risposte alle necessità quotidiane, prevalentemente legate alla precarietà della economia agraria vesuviana e soprattutto ausilio nella lotta ad ogni male del corpo e dell’anima.Molto è stato scritto, a riguardo la devozione popo­lare all’Arcangelo Michele, da teologi, da storici della religione cristiana e tanto spesso da ricercatori locali. E qui cade bene il richiamo su un’opera sacra esemplare: la pale d’altare di San Michele della chiesa Madonna dell’Arco di Sant’Anastasia. E nondimeno, a proposito di questo dipinto ad olio su tela, attribuito al pittore Antonio Sarnelli, è stato osservato che il suo specifico impianto iconografico ha funzione di “pastorale visiva’: capace di coinvolgere, addirittura, emotivamente i fedeli astanti. Fin ad oggi venire configurazione archetipale dell’eroismo di una identità divina. Passiamo poi ad analizzare il ripetersi di questo fenomeno socio-religioso, a riguardo di questo seguente centro vesuviano: Sant’Anastasia. E qui cade bene il richiamo allo storico Giovanni Alagi, che nel saggio dedicato a talune riflessioni sul culto tributato alla santa greca Anastasia, scrive: “Santa Anastasia non è una santa popolare, almeno nel no­stro ambiente. Di conseguenza, il relativo toponimo non sia nato per iniziative popolare e specialmente, fin dal passato è stata diffusa la notissima devozione a Sant’Anastasio legata, appunto, ad un tangibile oggetto sacro: la medaglia raffigurante la testa del santo. La quale veniva portata addosso e tuttora si continua a portarla con la convinta superstizione, che libera dal male, della fame e dalle malattie e nel contempo pro­tegge , addirittura dai diavoli, dalle fatture e via dicendo da ogni forma di stregoneria. Inoltre, per misurata la vitalità di queste enunciazio­ni è ancor più opportuno passare ad analizzare le forme di pietà che vengono espresse in altri centri vesuviani: a San Giorgio a Cremano, la cosiddetta Processione di San Giorgio ricorderebbe osserva Giovanni Alagi la vigorosa ripresa del cultoper San Giorgio, nel nostro paese, dopo la eruzione del 1631.
Ciò che importa, però, è tenere sempre presente il mito dell’eroe vincitore di ogni qualsiasi male, u n archetipo ben rappresentato nel simulacro di San Giorgio portato in processione, per tradizione ogni anno, il giorno della sua festa liturgica. La figura di San Giorgio – quale opera datata alla seconda metà del XVII secolo -consiste in un’interessante statua lignee, nella quale prevale l’ancestrale modello dell’eroe: reso, appunto, come divinità a cavallo in combattimento col drago Infine, proprio in merito a questo principio d’aiu­to divino, va qui rilevato il culto a San Rocco, molto partecipato nel quartiere di Ponticelli, a partire dalla prima metà del XVI secoloUn’interessante forma di religiosità vesuviana questa, come si è visto, e consistita fin dal primo momento come assoluto ricorso alla indubbia potenza taurmatur­gica di uno specifico nome tutelare: san Rocco (nato a Montpellier nel XIV secolo e sarebbe stato uno dei tanti romei medioevali). Di fatto nel corso dei suoi viaggi da pellegrino lui stesso avrebbe sperimentato la violenza del morbo della peste e, nel contempo, la potenza del misericordioso Dio lo avrebbe guarito. Così dopo si sarebbe distinto per l’assistenza agli affetti di peste.È per questo motivo di carità cristiana che, san Rocco viene invocato come sicuro terapeuta, per ogni forma di malattia contagiosa e nello specifico per la peste ed il colera.Questa ultima constatazione può confermare ed a mio avviso conferma che il vivido immaginario religioso del nostro territorio lo possiamo riscontrare soprattutto nell’arte sacra. In tal modo citiamo, l’opera artistica più monumentale, che possiamo trovare nella chiesa di san Rocco a Ponticelli: esattamente un ciclo di dipinti (datati 1977) eseguiti, nelle volta a vele nella navata centrale, dal pittore contemporaneo Carmine Adamo.
Questi dipinti consistono in un complesso insieme di temi iconografici, fintanto da indurre il fedele astante a “leggere” la devozione a S. Rocco in precisi assunti teologici ed agiografici. E a mo d’esempio, prendiamo in considerazione le tangibili immagini pittoriche della seconda vela della volta: San Rocco che guarisce gli appestati in cui è prevalente il principio della potenza taumaturgica del santo francese pellegrino. E per concludere il tema della religiosità popolare partecipata nell’area vesuviana mi sia consentito citare i santi “medici” addirittura per antonomasia: Cosma e Damiano, molto invocati da quanti necessiti di guari­gione dall’enterite, dai calcoli renali, dal mal di gola, dall’incontinenza urinaria dei bambini e da tanti altri ricorrenti malesseri fisici.E poi, dove c’è bisogno di assicurarsi contro ogni altro possibile malessere e disgrazia, conseguen­temente si determina l’insorgere di vari momenti della devozione popolare, rispetto ad altri peculiari santi taumaturgici, quali San Vito, San Sebastiano e Sant’Antonio Abate.Infatti, queste osservazioni confermano la vivida creatività popolare del territorio vesuviano in materia di manifestare il sacro, altrimenti, a dimensioni della tradizione pagana”.
.È in questo modo occorre precisare che il tutto non va lodato, “sic et simpliciter” come serbatoio della purezza e della ingenuità contadina, ma occorre, come abbiamo sostenuto nel presente saggio, tener conto dei cosiddetti “relitti culturali”( 20). Ovverosia, nelle radici archeologiche della nostra identità storico-religiosa cosi come prima è stata evidenziata si trovano inseriti tanti altri segni, insospettati, di cultura del sacro. A mo d’esempio, citeremo la raffigurazione di momenti di soccorso divino, con riferimento al passo biblico che potrebbe sembrare, addirittura, il “manifesto ideolo­gico” dell’immaginario religioso vesuviano: Dio che salva: con manforte, braccio teso, grande timore, segni prodigi. .A ben ragione l’apparente ridondanza della frase è spiegata nella eroicità espressa del dio Summano che ”con mano forte” protegge dalle saette notturne e similmente da San Gennaro che regge con mano forte il pastorale da vescovo rimanendo illeso dal martirio di una fornace ardente. Cosi il significato divino del braccio teso presenta rimando alla spada dell’Arcangelo Michele ed alla lancia di San Giorgio. Infine il signi­ficato profondo delle parole successive: grande timore, segni e prodigi, preannunciano i miracoli compiuti dai santi protettori prima citati. E in un modo molto più simbolico da San Rocco nell’atto di assistere gli appe­ stati. Fin tanto che finisce, decisamente, a tradursi nel consolidato archetipo della religiosità popolare: l’eroe vincitore di ogni male che angustia l’uomo.